Qualcosa rimane, tra le pagine chiare e le pagine scure.
Rimmel.
Di Dalila Sansone
Non me lo avevano detto che avrei camminato per le strade del centro di notte, con l’odore di cucina impigliato tra i capelli, sotto il primo cielo d’estate, sulla corda immaginaria di un’equilibrista a cui ho rubato l’arte di stare sempre in bilico tra una vita presa di rincorsa e l’aver dimenticato come si declinano i verbi al futuro. Non me l’avevano detto che avrei camminato per le strade del centro di notte, ascoltando De Gregori nelle cuffiette dentro la stanchezza di un doppio lavoro per fingere di stare bene così. Non me l’avevano detto, quando cantavo Rimmel incastrata tra i sedili posteriori e quelli anteriori, accomodata alla meglio sullo spazio per il posacenere, dentro la vecchia Golf di mio padre, per stargli più vicina a mio padre. Conosco Rimmel a memoria, tutto l’album, pezzi di vetro e piccole mele della figlia di un dottore compresi, e il padrone di Pablo che non sembrava poi cattivo e mi chiedevo se potesse assomigliare a un qualche vecchio “padrone” di mio padre … tutto, parola per parola, anche se erano anni che non ci pensavo più. Ho cantato senza ascoltarmi la voce, cantato per istinto riflesso tutte le parole che sapevo da piccola: sono rimaste lì ancorate infondo a un pozzo che non vede secchi da troppo tempo. Chissà cosa pensavo da bambina di quel collo di pelliccia e del vento che ci passava sopra. Non lo sapevo che mi avrebbero dato della vincente ma uno zingaro sarebbe stato un trucco anche per me, che quella mattina mi sarei svegliata lucida nella luce viva del mattino a confondere i miei alibi e le ragioni di qualcun altro. Non lo sapevo ma conoscevo tutte le parole.
Vorrei tenere ancora tra le mani quella vecchia musicassetta, la custodia rigida che iniziava a diventare opaca dove comparivano i primi graffi e la copertina di carta a righe, quel cammeo di donna un po’ sfocata che mi sembrava bellissima e così impossibile da arrivare: il tempo per i bambini è la somma di mille vite possibili e quindi non ne è nessuna.
Quello che scopro di volere davvero è riprovare la sensazione di tenere in mano un oggetto sacro, un rettangolo di plastica col nastro avvolto dentro ed aver paura di sciuparlo, di vedere il nastro saltato e il terrore di sentire la voce che usciva dall’autoradio rovinata. Era l’unica che avevamo e tutto quello che sapevo era che non ce ne sarebbe stata un’altra. Era l’album preferito di mio padre, era un piccola cosa preziosa, più di qualunque altra abbia avuto tra le mani da grande e quando dopo l’autoradio è arrivato il mangianastri, a volte, l’andavo a prendere di nascosto e facevo divorare la cassetta dallo sportellino nero che l’accarezzava e scivolare quella linguetta nera tra le testine. Le so ancora tutte le parole, sono salite su da quel pozzo una per una: non stavano sparpagliate sul fondo, sono un grumo di cuore che è cresciuto tra i sedili della Golf, quando questo mio cuore era piccolo e doveva solo diventare più grande.
Vorrei provare la stessa convinzione ostinata di sacralità da conferire ad un oggetto che avevo allora e che non ha niente di materiale o utilitaristico, da amare in modo viscerale e non razionale, perché è qualcun altro che lo ama, perché è qualcuno o qualcosa che ti evoca, perché è qualcuno che te lo insegna. Ricordarlo o poterlo ancora tenere tra le mani come un amuleto a cospetto del quale niente e nessuno possono nulla. Non serve la tecnologia, nemmeno la grafica o immagini confezionate che divorano la fantasia, o la certezza non consolatoria di riprodurre tutto sempre e all’infinito; serve una piccola musicassetta dimenticata chissà dove, che a solo pensarla mi fa sentire me com’ero poco meno di trent’anni fa o riporta la bambina dentro questo corpo di donna che non somiglia per niente alla ragazza della copertina. Però i quattro assi ce li ho, ho i miei, sono di un colore solo e sono rimasti buoni amici, ho avuto il mio futuro ingombrante e l’ho stracciato con la fantasia e nel destino non ci ho mai creduto. Ho imparato invece che capita che le cose tramino contro di te perché in un preciso istante, tu creda e sappia che la magia esiste, ed è talmente silenziosa, talmente discreta nel suo insinuarsi dentro la vita che devi dirle si e darle tutto quello che hai, se non vuoi che si dissolva illudendoti di non essere mai esistita. L’ho saputo senza capirlo dentro la Golf, imparando a memoria parole che non potevo comprendere ma non hanno mai stupito la mia ingenuità di allora e infatti se ne stanno ancora qui, pause comprese.
Non me lo avevano detto che avrei camminato stanca per le strade del centro, facendo scivolare gli occhi dalle pietre su per i campanili, fino al cielo blu d’estate, qui lontana da casa, in una città delle tante che non mi sono appartenute, per ripulirli e rendere più nitide queste fessure che ti separano da un fuori che vuoi poter portare dentro, che sono sempre state grandi ma mai abbastanza per contenere tutto il mondo che vorrebbe starci dentro.
Sto sempre attenta a non uscire di casa senza rimmel, adesso so che è tutto quello che ho di me.
Dalila Sansone
Abracadalbero – Parole senza radici
Prima di parlare rifletto, prima di scrivere no.
Le parole non hanno radici come gli alberi e non sono fatte per ancorarsi alla terra in un solo punto.
Le parole sono piuttosto semi, di quelli fatti per essere sparsi dal vento, e le radici ce le hanno dentro, in embrione.
Aspettano che ad accoglierle non sia terra ma animo fertile.
Sostanzialmente estranea a me stessa, ne riconosco tratti in quello che amo, di più in quello che detesto. E’ il contrasto che da evidenza alle cose.
Vai su ↑