Ordinaria caparbietà
Di Dalila Sansone
È di questi giorni la svolta sul caso Cucchi, la dichiarazione che riapre i termini del processo e dopo nove anni di vergogna istituzionale e giudiziaria ammette una verità nota ma da dimostrare, ché si taccia di essere meno vera se non dimostrata la verità. Il caso Cucchi è inevitabilmente legato al volto di Ilaria, sua sorella, una moderna dea della giustizia che ha lottato senza tregua perché la verità fosse scritta nero su bianco, perché non basta saperla, ci sono cose che non basta sapere, devono essere messe nero su bianco e una verità nero su bianco conta persino più del fatto che i colpevoli paghino, per un semplice fatto: che non resti impunita, che sia condannata e non si ripeta. E’ questo il senso della giustizia, è questa la ragione per cui è giusto definirla dea della giustizia, una sua personificazione.
Una mia amica nel parlare di Ilaria mi ha detto: è stupefacente l’ordinaria caparbietà di questa donna. Ordinaria caparbietà, ecco! Ecco perché la personificazione con una divinità astratta non stona: è nell’ordinario che si sovverte l’ordine delle cose, molto più e con maggiore presunzione di durabilità rispetto alle rivoluzioni. E’ una riflessione che ho maturato in parallelo, mettendo insieme sentimenti di altri ad un lavoro che per altre ragioni stavo portando avanti.
Mentre si parlava della svolta del caso Cucchi e a Ilaria si rendeva merito riconosciuto (sebbene sia rimasto lo stesso del primo giorno della sua battaglia), cercavo di ricostruire nella maniera più precisa possibile l’iter giuridico dell’abolizione della rilevanza penale della causa d’onore. No, non sono un giurista. Avevo iniziato a farlo perché casualmente un giorno ho citato Franca Viola e ho scoperto che il mio interlocutore non capiva a cosa mi riferissi. Così ho iniziato un piccolo sondaggio tra tutte le persone che incontravo, per una settimana. Solo tre di loro conoscono Franca Viola. Ecco Franca Viola è la Regina senza Re di cui parla una bellissima ballata popolare di Otello Profazio, che nel ritornello recita “su i picculi cose che cambiano o mundo e chiddi quadratu lo mutano an tundo” (sono le piccole cose che cambiano il mondo e da quadrato lo rendono tondo).
Franca Viola fu la prima donna nel 1966, ad Alcamo in Sicilia, a rifiutare il matrimonio riparatore previsto dal codice penale all’art. 544. L’ordinamento italiano consentiva che in caso di matrimonio si estinguesse il reato di stupro per il colpevole ed eventuali complici.
Il parallelismo con Ilaria Cucchi? L’ordinaria caparbietà di Franca. Aveva diciotto anni, per l’epoca non era nemmeno maggiorenne ed era figlia di contadini nell’entroterra siciliano. Non era una femminista, tanto meno un’eroina, solo una ragazza bellissima che non voleva sposare il nipote di un malavitoso locale, e non lo ha voluto nemmeno dopo che lui l’ha segregata per otto giorni, stuprandola per poi “riconsegnarla” alla famiglia e chiederne la mano. Non oso nemmeno immaginare lo strazio della violenza su una bambina appena diventata donna ma meno ancora cosa abbia provato di fronte alla riprovazione sociale per la sua scelta. Lei non voleva, non ha rilasciato interviste, ha continuato a vivere ad Alcamo e salutare i complici del suo aguzzino incontrandoli per strada. Nel 2014 è stata insignita dell’onorificenza di Grande Ufficiale al merito della Repubblica e in quell’occasione pronunciò un umilissimo discorso in cui disse che il suo non fu un gesto coraggioso, si era limitata a fare quello che le diceva il suo cuore, si descrisse come una ragazza semplicemente orgogliosa e che quel che fece, fu possibile grazie all’appoggio di due uomini, suo padre che se ne fregò di motivazioni d’onore riconosciute persino dall’ordinamento giuridico e chi la sposò poi, nonostante il tentativo di allontanamento di Franca, che temeva ritorsioni nei suoi confronti da parte della famiglia del suo carnefice. L’art. 544 del codice penale fu abrogato nel 1981 e lo stupro viene riconosciuto reato contro la persona e non contro la morale nel 1996, trent’anni dopo. L’altro ieri, come dice Franca.
Ordinaria caparbietà, come quella della senatrice che propose la legge di abrogazione nel 1979. Li ho letti gli atti delle discussioni parlamentari, consegnano il ritratto di un Paese ancorato a macigni di inamovibilità culturale ed emotiva. Si chiamava Carla Ravaioli, il suo nome l’ho letto sul testo della proposta di legge e della legge approvata poi il 5 agosto del 1981. Se digitate su google il nome di Carla Ravaioli, trovate qualche suo scritto e generiche biografie, nessuna delle quali la riporta come prima firmataria di una legge che ha significato diventare un po’ più civili, se non umani e comunque tardi.
Ordinaria caparbietà è quella di chi ha imparato che è un delitto non rubare il pane quando si ha fame (De Andrè), di quelli a cui il cuore non dà di continuare davanti a qualcuno che soffre senza poterlo impedire (Leopardi). Adesso penso a Mimmo Lucano e all’esperienza di Riace, punta dell’iceberg di un colosso di resistenza alle derive di civiltà a cui assistiamo noi, che le battaglie per la civiltà non le abbiamo mai fatte.
Forse bisogna imparare a sostituire il termine civiltà con umanità e quello di rivoluzione (o cambiamento per quelli a cui il termine rivoluzione fa venire la pelle d’oca) con ordinaria caparbietà.
La rilevanza giuridica della causa d’onore ha iniziato a scricchiolare quando Franca Viola è entrata in un commissariato a denunciare il suo stupratore, guardatelo il suo viso appoggiata alla scrivania in quei giorni, poi guardate quello di Ilaria Cucchi che tiene lo sguardo alto anche quando il dolore deve strozzarle ogni organo interno e sente infangare la memoria di suo fratello e poi, ancora, quello di Mimmo Lucano che prende le sue cose e viene costretto ad andarsene da dove è stato semplicemente un uomo. Poi cercate arroganza e compiacimento nelle loro voci.
Come? Non ci sono? Ecco è questa l’ordinaria caparbietà, le sembianze che prende la giustizia in mezzo a noi comuni mortali e che, a noi comuni mortali, il mondo lo rende migliore.
Dalila Sansone
Abracadalbero – Parole senza radici
Prima di parlare rifletto, prima di scrivere no.
Le parole non hanno radici come gli alberi e non sono fatte per ancorarsi alla terra in un solo punto.
Le parole sono piuttosto semi, fatte per essere sparse dal vento e le radici ce le hanno dentro, in embrione.
Aspettano che ad accoglierle non sia terra ma animo fertile.
Sostanzialmente estranea a me stessa, ne riconosco tratti in quello che amo, di più in quello che detesto.
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