Di Dalila Sansone
“Voi non credete in Dio, vero capitano?”
“Direi di no, e non sai quanto mi dispiaccia.”
“E perché?”
“Perché non ci credo, o perché mi dispiace?”
“La seconda che avete detto.”
“Beh perché è tutto più difficile, per quanto chiaro. Ti faccio un esempio: se credessi in una giustizia ultraterrena, sarei molto più pronto a perdonare le ingiustizie di quaggiù, e magari ora me ne starei al calduccio in poltrona a leggere “Il Corriere”, con Brahms dentro il grammofono, approfittando degli scioperi. Io poi sono doppiamente sfigato, perché un dio non ce l’ho neppure quaggiù in terra. Avrei scelto Lenin, è vero ma è ben diverso da chi sceglie il denaro, il successo o cose di questo genere. Vedrai che giungla, al termine di questo dannato conflitto! Bisognerà farsi trovare pronti.”
Mattia Speranza, Le orme degli uomini liberi
Hai poco più di trent’anni, scrivi e scegli di scrivere il tuo primo libro raccontando due cose che ti appartengono, fanno parte di te: la Resistenza e la montagna. Il punto è che la Resistenza non è una ambientazione qualsiasi, come scrivere una storia sullo sfondo della Parigi degli anni Venti o dei vènti del mare del sud. La Resistenza non è pretesto letterario, non può esserlo. Se lo diventa fallisce.
Presentare Le orme degli uomini liberi di Mattia Speranza (Scatole Parlanti, 2017) è un’opportunità di riflessione sul ruolo della letteratura ma prima ancora sull’eredità storica e morale dell’epoca e dei fatti di cui l’autore narra.
Il libro muove da vicende realmente accadute e le vicende sono fatte di nomi, pelle e ossa, di tutti i frammenti della scena di un rastrellamento e di una Libera Repubblica Partigiana nata sulle Alpi, senza che nessuno di loro venga tradito dalla finzione narrativa. Le righe scritte riportano uomini tra i sentieri, dentro notti buie e umide, mattini di luce abbacinante: se ne avverte ancora l’aria deformata quando le pagine vengono richiuse. Non sono fantasmi, è solo un indizio delle capacità di questo libro, di quanto può l’artificio delle lettere.
Subito dopo la fine della guerra civile, si presentò urgente per molti dei protagonisti, intellettuali per lo più, l’esigenza di fissare attraverso la letteratura l’esperienza di cui erano stati testimoni. Protagonisti inconsapevoli di un’ epica di cui intuivano la portata ma della quale erano incapaci di prevedere gli sviluppi, a guerra finita si trovarono di fronte tutta la problematicità di affrontare un’impresa del genere. Sfuggire alla retorica era la preoccupazione principale, lasciando però trapelare il ruolo decisivo e senza precedenti che la Resistenza aveva avuto non soltanto in termini politici ma soprattutto individuali e collettivi. Parlavano ad interlocutori che in qualche modo ne erano stati essi stessi testimoni. In un testo fondamentale per inquadrare la questione, la prefazione all’edizione del 1964 del Sentiero dei nidi di ragno, Italo Calvino conclude affermando che l’urgenza di testimoniare crea un diaframma tra te e l’esperienza, trasfigurando la memoria, dalla quale si separano alcune immagini privilegiate, lasciandone deperire altre, violando quella che definisce “l’integrità naturale della memoria fluida e vivente”. Il romanzo di Mattia Speranza si incunea di necessità su questo punto cruciale.
Una forma di dualismo è anche quello tra uomo e natura che nel libro diventa identificazione emotiva, nella vita dell’autore fulcro di azione. La scelta resistente ha implicato per buona parte delle formazioni partigiane doversi dare alla macchia, nascondersi e vivere la montagna, assorbirne i ritmi, amarne e odiarne le forme, impararne potenziali pericoli e possibilità. Non era scontato per tutti allora, meno che mai lo è adesso, comprendersi e rispettarsi, accettarsi reciprocamente.
Tanta parte dell’eredità della Resistenza e dello sforzo di ricostruire una società che potesse definirsi razionale sono andati persi e se un parallelismo esiste con la condizione dell’uomo contemporaneo, questo sta sicuramente nell’esigenza di un ritorno a una dimensione autentica che, fatto fermo e saldo il presupposto della libertà civile e personale, oggi ha a che fare con un certo modo di intendere l’esistenza.
Nella soluzione di continuità temporale che ci separa dalla Resistenza, la società si è emancipata in negativo dall’ambiente naturale. Allontanandosene per migliorarsi, ha finito col perdersi in logiche artificiali e stili di vita spesso incapaci di produrre senso, un senso logico connesso alla felicità reale. Si sono perse conoscenze tradizionali, capacità di vivere i territori, di scegliere alternative ai modelli precostituiti. E’ un fenomeno di cui sono diventati netti i contorni e di cui si inizia ad avere consapevolezza. Una delle conseguenze più evidenti è stata lo spopolamento delle aree rurali, quelle montane in modo particolare, dove la vita era diventata incompatibile con i sistemi produttivi industriali, incentrati sugli spazi urbani. Poi ci si è accorti della mancanza di qualcosa, che dimenticare significa farsi travolgere e trascurare perdere. Così tornare in montagna, restituire vita ai territori sta diventando un moderno atto di resistenza che non ha valore individuale ma implicazioni collettive cruciali.
“L’Italia si salva se si salva la sua colonna vertebrale che è l’Appennino” ripete spesso il poeta paesologo Franco Arminio e Mattia Speranza con gli amici-compagni della cooperativa In Quiete, fa proprio questo: contribuisce a salvare l’Appennino. Per Appennino si intende un territorio definito e non generalizzabile ma Appennino è anche tutto ciò che è travolto dalla marginalità, abbandonato e tradito per alternative che hanno deluso o non hanno potuto compensare la perdita.
In Quiete opera in Casentino, Appennino Tosco Romagnolo, e nasce per inquietudine e passione precorrendo i tempi, non ritorna ma resta. I quattro soci fondatori (Sara Baldini, Andrea Gambassini e Alessandro Volpone insieme a Mattia Speranza) nel 2014 scelgono di costruire un’alternativa lavorativa e di vita legandola ad un territorio. Iniziano con l’ecoturismo diventando tramite di una fruizione temporanea ed evasiva dell’ambiente naturale ma insistono perché l’immenso patrimonio naturale delle foreste Casentinesi non va ridotto a museo a cielo aperto e non è quello che vogliono. Quindi vanno avanti con attività di didattica, curando i progetti di volontariato nel parco (Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna) e collaborando alle attività di ricerca che si svolgono al suo interno. Potrebbe bastare se non fosse che i territori vanno vissuti, ma a viverli non è sufficiente organizzarci le cose, serve che ne siano l’anima, che quelle stesse cose da loro nascano e a loro ritornino. Prendono vita in questo modo due progetti importanti come Libra – Casentino book festival, un festival diffuso di letteratura di ambientazione naturale e montana fuori dai circuiti del mercato editoriale tradizionale, che mantiene vivo il legame autentico tra autori, lettori e i libri stessi e l’Antica Acquacoltura Molin di Bucchio, attività di recupero di un antico impianto di itticoltura alle sorgenti dell’Arno, nel quale vengono allevate specie autoctone per il ripopolamento e il riequilibrio degli ecosistemi acquatici locali.
Nella parte finale di un documentario sull’impianto di acquacoltura Mattia Speranza sorride dicendo “E’ un po’ una sfida ogni giorno venire qui e far andare avanti l’attività …”.
E’ un po’ una sfida ogni giorno essere espressione di quello in cui si crede. L’unica che valga la pena. La sola che possa definirsi vera resistenza.
L’incontro con l’autore, Resistere e poi Esistere: dalla letteratura all’Appennino Tosco-Romagnolo, si terra il 25 Maggio alle ore 18:00 presso la Feltrinelli Point di Arezzo, nell’ambito della rassegna Militanze Esistenziali_Storie di impegno e di passione
>Vai alla pagina MILITANZE ESISTENZIALI
Dalila Sansone
Abracadalbero