Di Valeria Di Napoli
Ragazzi, grazie per essere stati con me questa settimana.
I miei umori sono stati alterni e perciò non c’era grande omogeneità fra le canzoni. Ma che dire, nella vita bisogna accogliere tutto.
Questa è l’unica lezione fondamentale che ho imparato vivendo.
Perciò, grazie di avermi ascoltata, ma grazie soprattutto di avermi accolta.Passo il testimone al nuovo Dj.Daje forte.
Valeria
Domenica 19 aprile
Di versioni belle di Summertime ne sono state fatte tante, ma questa, fra quelle che conosco, è la più bella di tutte.
Ogni mattina mi metto in bikini sul balcone e guardo i petali muoversi dal vento e la aspetto.
Aspetto l’estate. Ma la aspetto, per la prima volta, senza fretta.
È come se avessi ritrovato il tempo e il colore delle cose, il loro lento scolorare in qualcos’altro.
Non c’è più alcun posto dove scappare, più niente da fare, se non stare in amorevole osservazione della vita che dispiega i suoi fiori, che poi, al tempo giusto, diventeranno frutti, che poi, al tempo giusto, diventeranno foglie secche, che poi, al tempo giusto, diventeranno il nuovo anno, la nuova primavera, la nuova estate.
Tante versioni diverse della stessa canzone, che ora abbiamo finalmente il tempo di assaporare.
#RadioConcreta #andràtuttobene #iorestoacasa
#JanisJoplin – #Summertime
Sabato 18 aprile
Sarà che è un valzer, sarà che è una vecchia canzone.
Sarà che gli uccellini al tramonto sono soli nel sole.
Sarà, secondo me, che la ascoltavamo nella vecchia casa, la sera, prima che io mi separassi da suo padre.
Fatto sta che questa canzone mia figlia non la può sentire, sennò si mette a piangere.
E io, ogni volta che la ascolto, penso a tutte le cose che ho sbagliato.
Con lei, con me, con lui.
Ma – questo me lo ha insegnato Ru Paul, ieri sera – se stai con un piede nel passato e un piede nel futuro, stai pisciando sul presente.
Quindi provo a stare qui, mentre la ascolto, ed è un duro esercizio.
#Radioconcreta #FrancescoDeGregori – #BuonanotteFiorellino
Venerdi 17 aprile
A volte mi sembra di sentire l’inizio del mondo dentro di me. Il rumore che ha fatto il big bang, l’esplosione di luce e di fumo, gli uncini della realtà che iniziano a conficcarsi nella realtà, l’inizio, la rivelazione delle cose. A volte, quando mi capita, mi capita di notte. Sento una solitudine inconsolabile, come quando ero nel ventre materno e non avevo nessuno che parlasse con me. O come quando, decine di migliaia di vite fa, ero sola nella foresta in mezzo agli animali.
All’inizio era il buio.
Poi fu la luce.
Uno, due, tre.
Ma all’inizio, no. Era il buio.
Da piccola avevo paura delle apparizioni. Mi tiravo le coperte su fino al naso e chiudevo gli occhi forte forte. Speravo che nessuno mi apparisse; sapevo benissimo che, se qualcuno mi fosse apparso, era di notte che sarebbe venuto, sarebbe venuto da me a rompere il buio.
Qualche mese fa mi sono fatta coraggio e ho ripreso il contatto con la fonte. La fonte del buio. Ho affittato un pianterreno, ho abbassato la serranda e sono stata a pascolare nel buio assoluto. Mi ero portata dei cibi da mangiare freddi e un registratore, così, se fossi stata troppo sola o troppo impaurita, mi sarei potuta parlare. Mi sono versata per sbaglio il thermos addosso. Nel buio sono andata verso un asciugacapelli e mi sono nel buio asciugata. Mi sono infilata nuda nel sacco a pelo, mi sono parlata da sola per un po’, poi ho parlato con qualcuno che non era lì. Mi sono addormentata, poi; e i peggiori incubi sono venuti a trovarmi, in fila indiana. Avevo una pietra con me, un quarzo fumé posato sul cuore, al risveglio non sapevo se era notte o giorno ma sapevo che tutti gli incubi si erano impigliati lì dentro, nella pietra, e che ne ero libera. Non sono mai più tornati. Guardando il buio fisso negli occhi ho iniziato ad avere visioni: il buio ha iniziato a parlarmi nella sua lingua, a comporre le sue immagini. Poi, a un certo punto, dopo giorni, ho deciso che era mattina, ed era mattina. E quando ho alzato la serranda, la mia vita non era più la stessa.
#andràtuttobene #iorestoacasa
#RadioConcreta #NicolaCruz – #Colibria
Giovedi 16 aprile
Oggi non ho voglia di parlare.
Ho incontrato una ragazza col cane, le ho detto: mi dici una canzone senza parole? E lei ha detto: fear satan.
#RadioConcreta #andràtuttobene #iorestoacasa
#MogwaiFearSatan
Mercoledì 15 aprile
Non so perché mia madre mi cantasse proprio questa come ninna-nanna, la sera, nella cameretta in mezzo al buio, per farmi addormentare, mentre io scalciavo nel mio pigiama azzurro, dietro le sbarre del lettino. Quel luogo per me era il luogo delle somministrazioni. Mi veniva somministrata Cappuccetto Rosso. I veniva somministrato Il Lupo e i Sette Capretti, con quella zampa infarinata, tesa, appoggiata sul davanzale, che mai dimenticherò. Mi venivano somministrate alcune canzoni fra cui quella che diceva “A lume di candela/Noi ci ritroveremo qui”. Italianizzazione del waltz of the candles, mi faceva venire da piangere. E 4 marzo 1943, mi faceva piangere anche lei. I violini li faceva mia madre, con la sua vocina. Queste somministrazioni dovevano servire a far addormentare la bestiola: quasi sempre ero stata vispa per tutto il giorno e ancora, a sera, avevo voglia di esplorare, di cantare, di ascoltare, di capire. Non cedevo al sonno, ma ci lottavo. Con nessuna di queste somministrazioni cadevo stecchita come mia madre avrebbe voluto, perché tutte le immagini somministrate si incidevano nel profondo della coscienza. Forse, chissà, se mi avessero raccontato di fate, di gabbiani, di castelli nella neve… Ma “Quel giorno lui prese a mia madre sopra un bel prato/l’ora più dolce prima d’essere ammazzato” no, non mi faceva scivolare nel sonno. Tutt’altro. Perché il sonno, a un certo punto, cominciava a somigliare alla morte. Solo il prato mi distendeva, dandomi un po’ di frescura, e quelle voci dal porto, quel bere vino fra gli amici, placidamente, per sempre. Io conoscevo queste canzoni solo attraverso la voce di mia madre, perciò mi andavano bene così, sgraziate, stonate, pensavo fossero state scritte proprio in quel modo – scritte per lei. A volte la sua voce si riduceva a un bisbiglio, e anche se in quella cameretta c’eravamo solo noi due, mia madre, quando cantava, non riusciva mai a lasciarsi andare del tuttto. Sicuramente l’idea di cantare 4 marzo 1943 a ninna-nanna (“Lei cantò a ninna-nanna) è il motivo per cui non sono mai riuscita ad ascoltare Lucio Dalla senza piangere. Anche perché lei, con quella vocina stonata e stentata, sembrava proprio come la mamma della canzone, con il petto, l’abito corto, i piedi nell’erba, la stanza sul porto. Sapevo di essere stata fra le sue braccia cogliendola impreparata come era impreparata la mamma della canzone, come sono impreparate tutte le mamme che stringono per la prima volta un figlio a sé, come ero impreparata io quando sono diventata mamma, e spingevo avanti e indietro il passeggino cantando questa canzone, sapendo benissimo che con questa canzone mia figlia non avrebbe dormito mai.
#andràtuttobene #iorestoacasa
#Radioconcreta #luciodalla #4marzo1943
Martedì 14 aprile
Ve la racconto per come mi è stata raccontata.
Facemmo un progetto, alla fine del quale chiedemmo a lui di scrivere una canzone per noi. Loro, chiesero: io me ne stetti dov’ero sempre stata, cioè al di fuori di questioni per così dire politiche. E trattare con lui era una questione per così dire politica. Uno dei miei capi raccolse il suo invito ad andare ad uno di questi suoi mega concerti nel mega stadio, alla fine del quale lo avrebbe incontrato per parlare della canzone. Il mio capo, che si trovava in quella città per lavoro, accettò. E questa fu la parola data. Una delle nostre collaboratrici, che era fan di lui da tempi immemori, implorò il mio capo di potersi unire per poterlo finalmente conoscere. E così andarono al concerto: il mio capo e lei. Alla fine dello show, nel backstage, lo incontrarono. Lui era avvolto da una nube di ragazze che – ve la racconto per come mi è stata raccontata – avevano l’aria di essere “delle zoccolette”. Io immagino che fossero le tipiche donne che ronzano intorno alla rockstar. Lui disse al mio capo – ve la racconto per come mi è stata raccontata – “Per la canzone tutto a posto, ho già parlato con Gaetano, la scrive lui”. Poi posò gli occhi sulla nostra collaboratrice e chiese: “Lei è per me?”.
Ecco, “lei è per me?” è una frase che non gli ho mai perdonato.
E questo farebbe il paio con altre cose che mi sono state raccontate sul suo conto, da altre persone.
Ad esempio, ve la racconto per come mi è stata raccontata, le volte in cui è andato ospite in radio ha sempre chiesto una stanza tutta per sé, in cui potesse fumare.
Io sono una fumatrice, eh, lo so quanto sia importante fumare, solo che se io andassi in radio e chiedessi una stanza tutta per me in cui poter fumare, quelli della radio mi risponderebbero di no, per una semplice ragione: che io non sono lui. Perché i potenti sanno di potere tutto, vent’anni di Berlusconi ce lo hanno insegnato, ma in fondo, io credo, era così anche prima di Berlusconi. L’uguaglianza è un mito, talmente un mito che a volte mi chiedo se sia un valore per cui continuare a lottare; a volte, ultimamente, mi rispondo di no, che non siamo tutti uguali, e che perciò è inutile pretendere di essere trattati tutti alla stessa maniera.
Ma d’altronde lui, quando penso a lui, lui credo che sia una persona molto sola. Ha uno yacht sempre attraccato nel porto, in cui fa le sue feste, ma a cui non toglie mai l’ancora, perché, ve la racconto per come mi è stata raccontata, non sa nuotare, perciò impedisce alla sua imbarcazione di prendere il mare. E parla con la sua automobile, questo grande suv in cui non si può vedere chi sta dentro, in cui viaggia da solo mentre attraversa il nord Italia da una regione all’altra, per andare a trovare il figlio. Ve la racconto per come mi è stata raccontata. Mi è stato raccontato anche che durante le tournée pippa tanta di quella coca che deve andare a ritirarsi per dei mesi in Svizzera, dopo, per farsi ripulire. E i suoi discorsi mi sembrano i discorsi di uno smidollato, discorsi di chi, evidentemente, pensa di godere di una sorta di impunità di fronte all’Italia. L’Italia, questo paese così piccolo.
Comunque lui, per quanto lo trovi spregevole, arrogante, drogato, consumista, maschilista, megalomane, lui ha scritto delle canzoni che mi hanno saputo veramente tenere compagnia, nella vita. E ogni volta che le ascolto, quando entro in un bar, oppure mi arrivano da una finestra aperta, sulla strada, a distanza di anni ancora tremo. Forse una persona normale, una persona che non sentisse di essere essenzialmente marcia, lercia, spregevole, non avrebbe nessun motivo di fare il cantautore, non avrebbe alcuna possibilità di scrivere canzoni così belle, così memorabili, alla fine così umane. Oppure chissà, lui è una personcina pulita e a modo – potrebbe essere – e tutte le maldicenze che mi sono state raccontate sono false, figlie di un parlottare tipico di un paese piccolo che non vede l’ora di tirare giù a sassate chiunque prenda un po’ di potere. Ho capito una cosa, nella vita, che le parole che senti fuori potrebbero essere tutte false, mentre le cose che senti dentro sono tutte vere. E in fondo, riducendo l’essenziale all’osso, non c’è altro, di affidabile, al mondo, se non quello che senti dentro.
#andràtuttobene #iorestoacasa
#RadioConcreta #VascoRossi #bollicine
https://youtu.be/0hpz9hGpOHU
Lunedì 13 aprile
Questa è la prima canzone di De Andrè che abbia mai sentito. La canticchiava mia madre, come se venisse da un tempo lontano. In effetti, pensavo che Bocca Di Rosa fosse molto più vecchia di quello che era. Ma era De André a essere molto più vecchio di quello che era.
A quell’epoca si ascoltavano le musicassette, e la radio era sempre accesa. Era sempre accesa tranne quando si ascoltavano musicassette. Ci accompagnava per lunghi pomeriggi, Radio 2 ascoltavamo noi, e la vita, con la radio, era un po’ più bella. Mia madre la prendeva come un cucchiaio di zucchero per inghiottire una medicina amara. Succede una cosa, mentre scrivo: è che il mio cuore comincia a vibrare. Vibra tutto dentro di me, come vibrava casa di mia nonna ogni volta che passava un autobus: vibravano le penne nel portapenne, vibrava il televisore, vibravano le mattonelle marroni, rigonfie di caldo e di tutte le vibrazioni che avevano assorbito. Vibravo anch’io. Bocca Di Rosa, la prima volta che la sentii, non mi fece vibrare, mi fece aprire, come una rosa appunto, e mi fece vergognare. Era la prima volta che sentivo parlare di sesso, ed era la prima volta che il sesso mi attraversava, cellula per cellula. Sentivo chiaramente che Bocca Di Rosa sarei potuta essere io. O che forse, l’ero stata.