Riflessioni sulla questione dei Giardini del Porcinai.
Di Dalila Sansone
Arezzo. Da più parti mi è stato chiesto cosa ne pensassi della storia dell’abbattimento dei lecci nei giardini del Porcinai. Ho pensato subito ad una scelta preventiva della amministrazione comunale, legata a questioni di sicurezza. Si sa un albero che cade in città è un pericolo potenziale per il quale si va nel penale ed è sacrosanto garantire la sicurezza del cittadino. Ma il taglio preventivo, come tutte le azioni preventive non adeguatamente motivate e giustificabili, si traduce sempre in danno se non predisposizione a nuovi problemi.
Ma a questo c’è soluzione dal momento che la VTA (Visual Tree Assesment) è una valutazione di stabilità che un professionista esperto è in grado di certificare, assumendosi la responsabilità civile e penale dei documenti firmati e con i quali un’amministrazione può togliersi qualsiasi dubbio in merito alla possibilità che il singolo albero possa attentare all’incolumità del cittadino o di beni e servizi.
Anche in questo sono sempre troppo ottimista, mi muovo nell’ambito del buon senso che a gestire i sistemi naturali lo si impara il buon senso: la complessità non si maneggia creando confusione, lo si fa con la conoscenza, la valutazione di tutti gli elementi in gioco e studiando la soluzione che implica il minimo danno ed il massimo beneficio in relazione agli obiettivi di partenza e/o alla natura del problema da risolvere.
A questo punto avrei voluto avere in mano il “Progetto di Costituzione per Città Repubblicana, con Dichiarazione dei Diritti degli Uomini e delle Donne, dei Bambini, degli Animali Domestici e Selvatici, compresi Uccelli pesci e Insetti, e delle Piante sia d’Alto fusto sia Ortaggi ed Erbe.” Di Cosimo di Rondò, che salendo su un leccio ha sancito la sua distanza dalle contraddizioni della società degli uomini e, da un punto di vista privilegiato, ha capito come dovrebbe funzionare l’interazione tra l’uomo e ciò di cui fa parte.
Gli appunti di Cosimo si sono persi ed in realtà non sono mai esistiti ma le conoscenze le abbiamo, il buon senso pure e in questa, come in tante questioni non dissimili, a un altro protagonista dovremmo fare appello: l’esercizio del diritto alla comprensione ed alla partecipazione nelle scelte legate al concetto di bene comune.
Quindi, appurato che non si tratta di un problema di sicurezza, veniamo ai nostri lecci. La questione è riconducibile ad un intervento di riqualificazione/restauro dei giardini dislocati lungo Viale Michelangelo e Viale Mecenate, intervento che prevede l’abbattimento (ho sentito pronunciare la parola demolizione e aggiungo all’elenco di quanto dovuto, il necessario rispetto della terminologia appropriata, perché un minimo di nomenclatura, come diceva Calvino, è necessario alla conoscenza delle cose) dei lecci che ne bordano le cordonature e la loro sostituzione con dei tigli. Le argomentazioni addotte dall’architetto del Comune che più mi hanno colpita sarebbero:
- Riqualificazione dell’area e ripristino del progetto originario degli anni ‘30
- Danneggiamento delle cordonature dovuto alla pressione delle radici
- Impossibilità di migliorare l’area creando delle aiuole a verde
- Problemi di sicurezza legati alla scarsa illuminazione notturna
L’area non è soggetta a degrado, semmai è gestita in maniera non appropriata e incostante: dubito esista un piano di gestione specifico con previsione di interventi regolari e mirati, pertanto non essendovi criticità particolari non ritengo che possa essere chiamata in causa la categoria della riqualificazione, piuttosto sarebbe da pensare ad un piano di gestione efficace ed atteso dell’esistente. Analogamente anche l’altra categoria in gioco, il restauro, mi sembra inopportuna: i giardini sono stati soggetti a più modifiche già a partire dagli anni 30’ e neppure in archeologia il restauro strettamente conservativo è più così stringente, figuriamoci per una porzione di verde urbano progettata per inserirsi in un contesto urbano completamente diverso rispetto a quello attuale!
Il danneggiamento delle cordonature dovuto alla pressione delle radici si riproporrebbe sempre, qualunque specie arborea venga utilizzata e comunque è una problematica che riguarda alberi adulti, difficilmente risolvibile, a meno che non si decida di rinnovare il verde ogni 10-15 anni e non permettere mai all’albero di raggiungere il portamento di una pianta matura. Il problema è comunque in parte mitigabile, evitando che il cemento o la pavimentazione arrivino fino al colletto dell’albero ma pensando di mantenere delle cordonature in terra, cosa che consentirebbe tra l’altro di estendere la superficie a prato. L’erba vi assicuro cresce anche sotto i lecci nelle alberature.
Illuminazione notturna: sostituire i lecci con tigli o qualsivoglia caducifoglia, limiterebbe il presunto problema alla stagione vegetativa quando gli alberi hanno le foglie, evitandolo si nei mesi restanti ma riproponendosi comunque. Dunque perché non pensare di cambiare prospettiva ed intervenire sul sistema di illuminazione?
Sulla base di queste argomentazioni veniamo alla sostituzione di specie: abbattere i lecci per ripiantare dei tigli, come sarebbe stato previsto da progetto originario. Onestamente non credo che il Porcinai se ne avrebbe tanto a male, anzi riterrebbe che il leccio nel caso specifico è specie più appropriata del tiglio, intanto perché era fautore del giardino all’italiana e guarda caso prova a prescindere dai lecci per progettare un giardino all’italiana, poi perché un tempo le professioni si esercitavano con un rigore estremo e essere architetto paesaggista implicava conoscenze molto approfondite di botanica e selvicoltura. Io quelle ce le ho e vediamo perché la scelta è insensata. Lo è innanzitutto perché non si tratta di un’emergenza, quindi non ci troviamo di fronte ad una necessità di intervento in virtù della quale possono essere pensate delle alternative all’esistente, bensì di alberature che, nonostante la barbarie di trattamento a cui sono sottoposte (mi riferisco alle potature ignobili che presuppongono conoscenza nulla della fisiologia di una pianta) e all’ambiente limitante in cui sono inserite, godono di ottima salute. Ne consegue che la sostituzione è una spesa inutile, insensata se ragioniamo poi di cosa si andrebbe ad impiegare come alternativa. I tigli sono alberi bellissimi ma quando si opera una scelta bisogna avere ben chiari costi e benefici, pro e contro. Il tiglio è specie mesofila, con una forte tendenza ad emettere polloni basali soprattutto in condizioni di stress, il che non eliminerebbe ma aggraverebbe il problema delle prominenza delle radici con la necessaria ripulitura della base dei fusti. E’ specie caducifoglia, quindi l’effetto di termoregolazione delle chiome è limitato alla stagione vegetativa e trattandosi di contesto urbano non è da trascurare nemmeno l’effetto di mitigazione sull’impatto delle precipitazioni al suolo, che le chiome dotate di foglie sono in grado di intercettare, quelle spoglie decisamente meno. A questo si aggiunga che in autunno andranno previste ripuliture periodiche delle foglie a terra per evitare intasamento dei tombini ed evitare situazioni di rischio (scivolosità in caso di pioggia). In misura minore una permanenza stagionale delle chiome riduce anche l’intercettazione di inquinanti e l’assorbimento di CO2 oltre a limitare la capacità fonoassorbente dell’alberatura nel suo complesso. Il tiglio è anche specie mellifera, produce polline allergenico ed è frequentata da insetti bottinatori che notoriamente non sono graditi al cittadino medio ed il periodo della fioritura è piuttosto lungo. Inoltre il tiglio in fioritura è spesso attaccato da afidi che producono metaboliti secondari zuccherini, anch’essi non particolarmente graditi da proprietari di suv o frequentatori di panchine in primavera. Da ultimo leccio e tiglio hanno due “temperamenti” completamente diversi: il leccio è una sclerofilla di ambiente mesomediterraneo straordinariamente adattata a condizioni semi-estreme, con un’adattabilità nettamente superiore al tiglio, cosa che la rende praticamente immune da parassiti e in grado di tollerare la barbarie delle potature inesperte. La capitozzatura (eliminazione quasi totale della chioma) dei tigli è potenzialmente molto più pericolosa di quella dei lecci: la specie è meno resistente e più soggetta all’ingresso di agenti patogeni attraverso le superfici (abnormi) di taglio, pertanto il rischio di marciumi ed il potenziale pericolo conseguente diventano più alti e presuppongono una presa in carico del problema da parte dell’amministrazione, che dovrebbe pertanto predisporre e finanziare valutazioni periodiche della stabilità (a meno che non voglia investire in professionalità delle maestranze adibite alle potature).
Riprendendo il filo della questione: analizzate le argomentazioni addotte, valutate soluzioni alternative e prese in esame le caratteristiche fenologiche e fisiologiche delle specie interessate, arriviamo al nodo della manutenzione (termine improprio a mio avviso ma che lascio tale per immediatezza di comprensione). Gestire il verde urbano implica un uso costante di risorse e l’impiego di professionalità adeguate. Un miglioramento della situazione attuale potrebbe essere agevolmente ottenuto studiando un adeguato piano di gestione e possibilmente attendendosi a quanto previsto. L’ ipotetico impiego dei tigli e l’estensione delle superfici erbose aumenterebbero notevolmente gli oneri di gestione, sia dal punto di vista economico che di tempo necessario. E’ un aspetto, questo, preso in esame dall’amministrazione proponente il progetto? Credo sia uno dei punti cruciali della questione.
Affrontando un problema con onestà intellettuale, coinvolgendo tutte le professionalità ed i soggetti di pertinenza, ci si accorge che la mediazione è necessaria oltreché difficile ma la mediazione stessa deve essere condotta con trasparenza ed equità, analizzando implicazioni, costi e opportunità di ogni singola scelta. Al di là del merito, l’operato di una qualunque amministrazione deve essere condotto nell’interesse collettivo (ed è questo che deve essere preteso dal cittadino), garantendo la pluralità di espressione e la massima oggettività di analisi. Pertanto ritengo che, più del solo abbattimento dei lecci, vada pretesa chiarezza sulla natura complessiva del progetto, possibilmente attraverso degli incontri con possibilità di confronto sugli elaborati di progetto, con tanto di esame dei dettagli operativi, dei relativi costi, del tipo e dell’entità del finanziamento ricevuto o richiesto e discussione sui vincoli del finanziatore, quindi della eventuale possibilità di veicolare diversamente tali fondi (ad esempio per il miglioramento e non il rifacimento dell’area in questione) e valutare la possibilità del loro impiego in situazioni che lo richiedano oggettivamente.
Dalila Sansone
Abracadalbero
Dottore forestale
Assegnista di ricerca presso il Consiglio per la ricerca e l’analisi dell’economia agraria, Centro di Ricerca Foreste e Legno
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