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La musica e altri doni sacri – #RadioConcreta

Di Costanza di Tokyo

 

È stata una settimana magnifica. Non ci sono parole. Questa settimana ne ho usate tante. Infatti dopo un po’ che uso le parole, mi stanco. Preferisco usarne meno, e trasmettere di più. 

La musica è uno dei tanti modi di trasmettere, ed è un dono sacro. Penso mi abbia letteralmente salvato la vita, quando non avevo parole per descrivermi, neanche di fronte a me stessa; quando i concetti erano confusi e le direzioni imprecise, la musica mi è sempre servita da gancio per riportarmi dove volevo essere, senza pensarci. Dovevo solo scegliere la frequenza, la canzone, ed ero già lì. Teletrasporto. 

Questa settimana ho capito che questo, Segni Concreti, è un luogo speciale. Tutti i luoghi sono speciali, ma quando si raccolgono persone consapevoli di questo, della preziosità e della specialità dei luoghi, quel luogo diventa particolarmente speciale. 

Quindi vi ringrazio. Prendiamoci cura di noi, della nostra sensibilità. E proviamo ad ascoltare buona musica, a dire buone cose, a nutrirci del buono, del bello, e a restituirlo a piene mani, a tutti. Con generosità. 

Così, solo buone e belle cose saranno in circolazione, presto. 

Buon viaggio.
 

 

Costanza

 
 
 

 

Domenica 1 Luglio

Scusate ragazzi, stamattina ho fatto tardi

È l’ultimo giorno, l’ultimo giorno di questo bellissimo viaggio durato una settimana, quindi ci salutiamo qui.

Ma ovviamente non ci salutiamo qui, perché dove finisce un viaggio ne inizia un altro, e siamo tutti lo stesso viaggio.
Vi saluto con una musica speciale, musica canalizzata. Significa che viene da un’altra dimensione, che qualcuno sulla Terra ha captato vibrazioni provenienti dal mondo spirituale e le ha trasmesse qui. Anche le stelle, i pianeti sono legati tra loro, e a noi: ci parlano, ci sentono. Si cammina tutti insieme. E noi sentiamo loro, anche quando siamo convinti del contrario.

Senza la fiducia, tutto si rompe.

Questa musica viene dalla Luna, e siccome il tema di questa settimana è stata l’acqua, la Luna mi sembra il luogo migliore per concludere questo viaggio. È l’energia che governa le maree, le acque nei corpi femminili, che abbraccia, che incondizionatamente accoglie, che fa sorgere la vita. La Luna riceve e trasforma l’energia del Sole, ma con un’armonia più soffice, che fa riverberare la vita di una lucentezza diversa.

Io, a volte, quando mi voglio ispirare su come desidero essere, guardo il cielo. Lì c’è tanta roba.

Oppure mi piace stare sott’acqua, in dolcezza. Sentire da lì la voce della vita pulsare. Abbandonarmi, sentirmi portata, senza dover controllare la direzione. Come quando ero nella pancia della mamma. Guidava lei. Io ero il passeggero fiducioso del grande aereo che mi portava, che mi nutriva. L’augurio che vi faccio, e che faccio anche a me, è di vivere con quella fiducia che avevamo quando eravamo lì dentro, la fiducia che tutto andrà bene, la fiducia di quando pensavamo che sarebbero arrivate solo cose belle.

E da questo abisso marino, vi abbraccio, e vi saluto. Spero che ciascuno di noi, uomini e donne, possa diventare acqua che culla, acqua che nutre infinitamente la vita, che accoglie un’immensità di creature senza forzare il passo, trasformando tutto quello che riceve in nuova vita, in nuova bellezza, in nuova silenziosa, fortissima creazione.

Vi auguro questo.

«Gli uomini sembrano molto forti ma hanno un lato molto fragile.

Essi hanno grande forza esplosiva ma potrebbero avere tristezza, senso di solitudine, e nasconderle dentro di sé.

In quel momento, invece di giudicarli, criticarli, vorrei che li abbracciaste dentro di voi, accogliendoli per quello che sono.

Vorrei che li abbracciaste in silenzio.

Questa è l’energia femminile».

Selenity

dj Costanza Di Tokyo

#Selenity

#TheMoon #YosukeIida #SilviaSavoldi #gentlestar
#RadioConcreta‬ ‪
#Buongiorno‬ ‪#BuenosDias‬ ‪#GoodMorning‬ ‪
#SegniConcreti
 
 

 
 
 

Sabato 30 Giugno

Una cosa per cui era veramente magnifico andare in California era l’oceano.

Io non so se gli altri vedono l’oceano come lo vedo io, perché secondo me ognuno vede il mare a modo suo. Ma chi abbia mai parlato a qualcuno sott’acqua sa con quale potenza si propaga il suono lì sotto. È un oceano di trasmissioni, l’acqua è un conduttore che porta informazioni rapidamente, e molto fortemente.

La cosa magica dell’oceano, è che lì sotto c’è pace. Nonostante la forza, la potenza, la vita, la produttività, lì sotto c’è la pace che ci dovrebbe essere anche sopra.

L’oceano è incredibile, perché fra l’onda vissuta da sopra e l’onda vissuta da dentro c’è una differenza enorme. A seconda di dove sei rispetto all’acqua, capisci tutto o non capisci niente, senti tutto o non senti niente. Quando sei dentro l’onda, senti la pace, la forza. Quando sei fuori dall’onda, l’onda ti schiaccia a terra e sei fuori da tutto. L’oceano è un grande insegnante, ti spiega molto concretamente la differenza fra muoversi insieme, e muoversi contro.

Chi non è mai stato sull’oceano forse non immagina quali pareti verticali siano quelle onde. Sembrano leoni. Anche gli eventi della vita, gli eventi che creiamo, sono strumenti concreti: possiamo usarli per spostarci in avanti, oppure farci sommergere e affogare. Gli eventi creati attraverso i nostri stati d’animo sono le nostre prove di nuoto.

Trouble Child e Twisted sono la penultima e l’ultima traccia di Court and Spark. Sono due tracce intrecciate, anche se molto diverse tra loro. Con, contro. Qui, lì. Nell’acqua e fuori dall’acqua. La facciamo tanto difficile, ma è scandalosamente facile cambiare stato d’animo. È come passare da una traccia all’altra. Si può passare da uno stato d’animo ad un altro liberamente, anche se apparentemente non c’è contiguità fra loro. La contiguità c’è, è la scelta. Quando scegli dove stare, e come stare, scegli anche dove sei, chi sei, cosa succede. Il mare lo insegna bene. Se vuoi prevalere, se vuoi isolarti, finisci male. Se vuoi muoverti con, muoverti insieme, ti sposti a grande velocità.

Trouble Child è l’onda rotta, la connessione spezzata, il mare dal punto di vista di chi pensa di non esserne parte. Quando sei in quello stato d’animo, ogni onda ti schiaccia, nessuno ti è amico. «They talk like they know you, they don’t know you».

Twisted è la stessa onda vista da un’altra prospettiva – è il twist del punto di vista, è la traccia dopo. È l’onda dopo che ci sei stato dentro. Torni da una lunga nuotata, ti asciughi, racconti dove sei stato ma nessuno ti crede, ma non te ne importa. Ci ridi sopra. Perché qualsiasi cosa dicano gli altri, tu sei con.

«I knew all along that he was all wrong

And I knew that he thought

I was crazy but I’m not – no, no :-)»

dj Costanza Di Tokyo

#JoniMitchell #TroubleChild
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Venerdì 29 Giugno

A sedici anni decisi di partire per gli Stati Uniti. Da lì veniva Joni Mitchell e quasi tutta la musica che ascoltavo, da lì venivano i figli dei fiori, Woodstock, Berkeley, le droghe psichedeliche, la Route 66, la poesia Beat, «Seppellitemi con i miei stivali», Rosa Parks. Le cose possibili, la sensazione di espansione e libertà che mi teneva in vita. Abitanti diversi di una stessa Terra erano andati a vivere insieme, unire gli sforzi, mettere al centro le qualità, le differenze, costruire qualcosa di completamente nuovo, fondando nuove regole, più libere. Nonostante la fatica, e il progetto non facile di far convivere le diversità, questo era il sogno planetario e universale. Il respiro grande dell’Universo.

Quando ebbi in mano il primo dollaro, notai che qualcosa non tornava. C’era scritto: «In God We Trust». La parola «Dio» era scritta su tutti i dollari.

Le diversità si erano dimenticate di essere diversità. Erano diventate un blocco omologato di nome America e guardavano con ostilità ciò che era diverso, ciò che non era America. Avevano svenduto i loro tesori, quelli che si erano portati da casa, con cui avevano attraversato il mare venendo da molto lontano, e li avevano svenduti in cambio di niente. In cambio di dollari. Il sogno universale per il sogno americano, il tutto in cambio del niente.

Iniziai a vedere le grinze del Truman Show, a notare come l’America fosse uno scenario di cartapesta. E ciò che è fatto di cartapesta, è vulnerabile. Tutto ciò che non è vero, prima o poi crolla, e crolla male, andando a fuoco.

A volte uno scossone forte serve a farci riportare l’attenzione su ciò che è davvero importante. D’altronde, le cose brutte accadono quando eravamo distratti. È la vita che urla. Ci sono tanti segnali, prima di un trauma, tanti segnali che abbiamo ignorato. Tantissimi.

Il giorno in cui tornai in Italia ero in bicicletta, era mattino presto, e mi resi conto che su quella strada c’eravamo solo io e un uomo, in macchina, che mi stava seguendo. Mi tallonò lungo il marciapiede per molte centinaia di metri, finché le cose che mi diceva dal finestrino non mi furono molto chiare all’orecchio, e senza neanche accorgermene mi ritrovai chiusa in un vicolo. Quando ci rendiamo conto di aver sbagliato sogno, ci sentiamo minacciati, vulnerabili, perduti. Faccia a faccia con la nostra immaturità. Riuscii a salvarmi perché ho una voce molto forte, e urlai.

Da tante settimane ascolto questa canzone e penso alle Torri Gemelle, a questa coltellata nel cuore dell’Occidente che nessuno si aspettava, nessuno se l’aspettava perché erano tutti molto disattenti.

Penso a quanto sia potente il processo di ricostruirsi, e di ricostruire i propri sogni, dopo.

L’attacco ci mostra dove abbiamo il buco. In quel momento serve lucidità, bisogna riuscire a portare ringraziamento anche nel momento in cui credi di morire. Bisogna portare fede, ricordarsi che tutto è arrivato lì per noi. Che proprio lì, nel cuore della ferita, c’è l’opportunità di diventare grandi. Più solidi. Più divini. Diventare ciò che davvero volevamo diventare, diventare veramente noi.

In realtà non penso quasi mai alle Torri Gemelle, penso invece, tantissimo, alla Torre che è stata ricostruita dopo. Siamo abituati a identificarci con la ferita, a raccontarci raccontando il male che ci hanno fatto. Ne parliamo come se fosse un’ingiustizia, quando invece era un regalo, perché trasformare un’ingiustizia in un regalo è la vera giustizia. Da due torri siamo diventate una. Forte, lucente, sfaccettata, prismatica, posata sull’acqua. Siamo ancora lì, in piedi, più consapevoli del nostro posto. Su quell’acqua onoriamo chi è morto, sia chi attaccava, sia chi veniva attaccato, come parti di un unico organismo, parti di noi che hanno sacrificato sé stesse per ricordarci chi siamo.

«…Eight million stories, out there in it naked…»

dj Costanza Di Tokyo

#AliciaKeys #JayZfeat #EmpireStateOfMind
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Giovedì 28 Giugno

Quell’estate c’erano stati gli attentati a Sharm, quindi non c’erano turisti. E comunque io non sembravo una turista, perché se stavo zitta, tutti gli Egiziani pensavano che fossi egiziana anch’io.

La spiaggia era vuota, e silenziosa. Un posto magico, tutto per me. Avevo la barriera corallina davanti, il monte Sinai, i piedi in un’acqua trasparente e piena di pesci; chiudevo gli occhi, immersa nel silenzio e nel vento. Avevo comprato questo CD di Beck a scatola chiusa, ed era perfetto. L’acqua m cullava. Il Sole mi cullava. L’aria mi cullava. Tutto mi cullava. La vita era una culla, dolce. Era una mamma che non se ne sarebbe andata mai, perché il tempo non c’era.

Mi ero spostata di città in città. Ogni sera avevo liberato dai piedi tutta la terra raccolta sulle strade, quella terra fertile della Valle del Nilo che dall’inizio dei tempi ha accolto e nutrito la civiltà. Il Cairo mi aveva incantato, le città di fiume mi incantano perché hanno un’energia tutta loro, che corre verso il mare. Mi avevano incantato i ragazzini che giocavano a pallone scalzi fino a notte inoltrata, felici di esserci, felici come sono felici i bambini quando giocano con i bambini. Chi aveva un televisore lo spingeva sul marciapiede per condividerlo, e intorno si accroccava subito una folla. Qualcuno riempiva una brocca d’acqua e la lasciava sulla strada per chi la volesse, e ogni volta che un assetato si fermava a bere, ringraziava e benediceva.

Ad Alessandria la biblioteca era tutta digitalizzata, non ci potevo credere. Corridoi e corridoi e piani e piani di vetro, acciaio.

Invece le Piramidi erano proprio come quando c’erano i Faraoni. Se entri dentro, il tempo si contorce. Sei piccolo, piccolo nel tempo, come nel ventre di una mamma. E quando esci, non sai quanti giorni sono passati, o se l’hai solo sognato. Sei fuori dalla linearità.

E i cammelli sono bellissimi, morbido il muso, gentile il dorso.

E senza che nessuno mi vedesse, una volta sono scappata su una spiaggia dove non dovevo, e quella mattina fui più egiziana che mai, ma per quanto cercassi di muovermi come un’egiziana, si vedeva che mi muovevo come una fuorilegge, perché io le regole non le sopportavo.

E i mezzi pubblici non esistevano. C’erano a volte uomini col furgone che raccoglievano la gente, che quando salivi ti dicevano: «Dove devi andare?». E quando scendevi gli lasciavi una moneta, e gli dicevi «Inshallah». Che è l’augurio che tutti fanno a tutti, di stare nella volontà di Dio. Cioè in allineamento con le leggi universali, con tutto ciò che è, sulla palma aperta del mondo che ti regge.

«Put your hands on the wheel

Let the Golden Age begin

Let the window down

Feel the moonlight on your skin

Let the desert wind

Cool your aching head

Let the weight of the world

Drift away instead»

dj Costanza Di Tokyo

#Beck #TheGoldenAge
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Mercoledì 27 Giugno

Quando uscì Bring It On avevo 17 anni, e non ci potevo credere. Non ci potevo credere che esistessero dei musicisti così, che sentivano le stesse cose che io sentivo. Ma loro erano dall’altra parte della Manica e non sapevo come abbracciarli. Non sapevo che si potesse usare la telepatia, né che ci fosse alcun tipo di legame possibile fra persone distanti fisicamente, perciò io sapevo come si sentivano loro, ma ero certa che loro non sapessero come mi sentivo io.

Il che, probabilmente, era assolutamente vero, visto che io ero assolutamente convintissima che nessuno potesse sentirmi.

Questa era una costante della mia vita. La solitudine. Persino quando le persone mi erano fisicamente vicine, mi sembrava sempre che ci fosse un vetro di mezzo. Il vetro è dentro, e fuori non lo rompi finché dentro non lo rompi. Ma questo, a 17 anni, non lo sapevo. Per questo, ovunque andassi, viaggiavo con intorno la mia cabina di vetro che non sapevo di avere. E nessuno mi sentiva. A volte, nessuno mi vedeva. E più non mi vedevano più mi sbracciavo, e più mi sbracciavo e più venivo ignorata, e più venivo ignorata più il vetro si ispessiva. E non sapevo proprio come uscirne.

Poi arrivarono i Gomez. Da come suonavano, era chiaro che ci saremmo potuti capire. Ma non avevo idea di come raggiungerli, non sapevo neanche dove abitavano. E ovviamente nessuno a parte me aveva idea di chi fossero i Gomez, nemmeno l’uomo che mi aveva noleggiato il CD (all’epoca si noleggiavano i CD, e si copiavano su cassetta). Provai a farli ascoltare a qualcuno, ma nessuno mostrò alcun entusiasmo. Non capivano. E io non mi facevo capire. E dopo 17 anni a sgolarmi, a battere i pugni sul vetro, ero talmente stanca di cercare comprensione che mi ero rassegnata al fatto che in quella cabina esistenziale c’eravamo io e io, e che probabilmente sarebbe finita così.

In realtà, non mi ero rassegnata proprio del tutto, perché in quel periodo iniziai a passare moltissimo tempo su Internet.

A Foggia non c’era nessuno che mi capiva – pensavo – ma in Canada qualcuno ci sarà, o in Alaska, in Africa, in Svezia. Fu il periodo in cui cominciai a prendere aerei da sola per cercare fratelli nel mondo. Ovviamente mi portavo tonnellate di vetro addosso su qualsiasi aereo salissi, quindi l’incantesimo non si rompeva mai.

In chat conobbi un ragazzo di Cagliari che si chiamava Fabrizio. Era innamorato di una ragazzina con gli occhi verdi che non lo filava, avrebbe voluto fare il pilota aeronautico ma era finito a fare il web-designer, ed era un fan della difesa «a catenaccio» della Nazionale italiana (era l’anno degli Europei). Non eravamo d’accordo praticamente su niente. In particolare, «a catenaccio» vuol dire che sposti un giocatore da centro campo per aggiungere un difensore, e che perdi un attaccante. Il principio è che non deve passare nessuno. Siccome non sapevo di avere una fodera di vetro antiproiettile addosso, odiavo gli schemi difensivi perché secondo me bloccavano il gioco. Vedevo le difese solo negli altri, sempre negli altri, ero bravissima a sgamarle negli altri, e mi ci arrabbiavo molto. Comunque, mi invitò a Cagliari da lui, e in quel momento qualcosa di bello successe dentro. Iniziammo a capirci, a scioglierci. All’epoca stavo preparando gli esami di Stato, e Fabrizio, con la sua mano d’oro, creò una pagina su Internet in cui assemblò passo passo, di notte, tutta la mia tesina, che dopo mesi di lavoro infaticabile riversò su un CD-Rom e mi spedì a Foggia con un pacchetto. Andare agli esami con un CD-rom, per l’epoca, era pura magia. Il pacchetto mi arrivò a due giorni dall’orale. Davanti alla commissione tirai fuori un computer portatile (noleggiato) e iniziai a parlare del significato del Mito davanti a un full-screen del gruppo scultoreo di Amore e Psiche, e attraverso una rete scintillante di clic portai dieci commissari a spasso attraverso il tempo. Fu un incanto, e tutti restarono incantati. Anch’io.

Il giorno dopo arrivai al porto di Civitavecchia, da lì presi un traghetto per Cagliari. Non volevo lasciare niente di intentato, perché magari la mia strada era lì. Magari, a Cagliari, avrei trovato l’amore, avrei trovato la vita, avrei trovato la comprensione. Magari no, ma davvero, non avevo niente di meglio da fare.

Fabrizio mi aspettava sul molo. Mi vide scendere dalla scaletta salutando i macchinisti, un boy-scout e un gruppo di ragazzi con cui avevo passato la notte sul ponte buttata per terra. Facevo sempre amicizia con tutti, perché ogni volta che incontravo un essere umano speravo che ci saremmo capiti – e invece mai.

Anche con Fabrizio, non ci eravamo capiti. Fu chiaro da subito. Ad esempio, io non avevo capito che faceva il pierre nelle discoteche. Come grafico faceva gli inviti, e poi era lui stesso a spacciarli in città, ed era visto da tutti come un tenebroso supereroe che decreta «chi è fuori» e «chi è dentro». Fumava Philip Morris azzurre, non si stirava le camicie per sembrare controverso, e aveva un harem di amichette tigrate che si sbranavano per essere portate a letto. Non avevo capito che il poster sull’anta dell’armadio era la Canalis (diciassettenne) e che avrei dormito in una cameretta tappezzata di topa. Insomma, non avevo capito niente. Per me, lui era l’angelo dalle mani magnifiche che aveva creato ponti di luce fra Amore e Psiche e Nietzsche e Joyce.

Restai intrappolata a Cagliari per una quantità di giorni inimmaginabile, e la mia vita pendolava dolorosamente fra aperitivi al Poetto, Miss Maglietta Bagnata, batida di cocco con granatina, cinese a domicilio, «stasera ci vediamo all’Open» e un esercito di ragazze che, secondo me, mi volevano morta. Morta. Soprattutto da quando, sulla scala mobile di un centro commerciale, e neanche troppo a bassa voce, Fabrizio squadrandomi aveva decretato: «Nessun’altra ha il tuo stile». Il che teoricamente era una buona notizia. Ma invece di farmi sentire a posto, quella frase non fece che farmi sentire più pressione, più disagio, più ansia, perché io non avevo idea di quale fosse il mio stile, quindi non capivo chi volesse cosa, e la cabina di vetro si ispessiva ora dopo ora. Infatti non ricordo una sola conversazione avuta con nessuno di loro. Non una. Tipo lumaca ritirata nel guscio dopo essere stata molestata da uno stuzzicadenti. Non ricordo niente, a parte la frase di un ragazzo molto scazzato che una sera, al tavolino di un bar, disse:

«Secondo voi quanto dureranno i Blink 182?».

Poco.

Per fortuna, avevo la cassetta dei Gomez.

Provai a farli ascoltare a Fabrizio. Dopo circa dieci secondi che il nastro girava, mi disse che erano inascoltabili.

Una mattina c’era la Formula 1 in tivù. Fabrizio era ancora a letto, perché non si sentiva tanto bene. La mamma di Fabrizio aprì l’anta del frigo e mi chiese se volevo un Frúttolo.

Quando sentii la parola «Frúttolo» mi venne da piangere, mi venne da abbracciarla, e in un attimo la cabina antisfondamento si sciolse. Non sentivo dire «Frúttolo» da almeno dieci anni. Era la mia merenda di quand’ero piccola. C’era una pubblicità con una mucca colorata e una bambina che abbracciava forte forte una fragola, all’epoca il mio papà era ancora a casa, a guardare la televisione con me sulla poltrona.

Fabrizio quel giorno si ammalò e io improvvisamente mi sentii libera di fare quello che volevo, di sganciarmi dalla movida. Iniziai a fare lunghe camminate nel mare, con questa lunga spiaggia che era bellissima. La spuma, gli scrosci, i piedi sul morbido, cieli lunghissimi che mi accompagnavano fin dove volevo. E il walkman. E i Gomez.

E per la prima volta mi fu chiaro che la salvezza è ovunque. Per quanto lontano tu possa essere da casa, per quanto tu possa aver sbagliato destinazione, per quanto tu possa aver frainteso o sottovalutato tutto e tutti, e per quanto tu possa essere stato frainteso, basta veramente poco, e la casa è lì. Proprio dietro quel vetro che appena lo rompi, scopri che non c’era.

«Why do you keep running around like that?

Sit back, ‘cause this is gonna take a while

There’s no shame in going out of style

Why do you keep running around like that?»

dj Costanza Di Tokyo

#Gomez #HereComesTheBreeze
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Martedì 26 Giugno

Questa è l’acqua all’alba, quando la sabbia è ancora fresca e la riva è trasparente.

Poi il Sole sale, e sull’acqua appaiono tutti i luccichini di mezzogiorno, e la sabbia scotta, e anche il cielo cambia, e anche l’acqua si fa più torbida perché il fondale si solleva. E poi si fa pomeriggio, scendono i raggi tiepidi delle quattro, si sente il rumore della risacca, quel suono a cui al mattino non facevi caso – adesso ci fai caso, perché senti che la giornata sta per finire.

E poi il sole tramonta, in alcune terre del mondo affonda sull’acqua attimo dopo attimo come una grande arancia, si immerge dentro gli abissi già scuri, già blu, delle sette, le otto. E l’acqua è di nuovo fresca, e la sabbia è di nuovo fresca, tutto è pronto per ricominciare su una pagina nuova, per far iniziare un nuovo giorno nuovo di zecca, un nuovo regalo.

Questa è una canzone di pace, contiene tutti i colori della giornata, tutte le temperature della giornata, tutte le ore della giornata. Ed è impossibile imprigionare un colore, così come è impossibile imprigionare un momento, così come è impossibile imprigionare un essere umano. O isolarlo dagli altri. Perché tutto cambia, tutto è libero, e tutto va insieme. Si muove nell’onda, si alza nell’onda, sparisce nell’onda, rinasce nell’onda.

«Freeedom is a word I rarely use without thinking

Of the time

Of the time

When I’ve been loved»

dj Costanza Di Tokyo

#Donovan #Colours
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Lunedì 25 Giugno

Sono molto contenta di avere la possibilità di condividere una canzone al giorno con voi. Non ho una scaletta, perché penso che l’energia cambi molto più rapidamente delle scalette e che sia veramente stonato trovarsi a mettere una canzone quando non è più (o non è ancora) il suo momento. Fare una cosa senza che sia il suo momento, solo perché l’abbiamo programmata. Solo perché era in scaletta.

Così, improvviserò.

Tuttavia, la prima canzone è particolarmente importante e sentivo già da qualche giorno che avrei messo questa, anzi, ero proprio sicura. È una canzone talmente intima che non ce la faccio a parlarne, vibra solo dentro. L’altra sera l’ho fatta ascoltare a mia figlia e lei si è messa a piangere di commozione. Le ho passato una mano tra i capelli e le ho detto: «Non ti dimenticare mai questo cuore».

Quando siamo nel cuore, qualcosa si scioglie, un ghiacciaio antico. O un vulcano sommerso ritorna alla luce e ricomincia a pulsare, ad amare.

Questa è la storia di un vulcano e la sua preghiera era il canto. Pregava (cantava) di poter avere una compagna con cui dividere la vita, e come tutte le preghiere esaudibili, era una preghiera di amore, di fiducia. Perché, ve lo dico per esperienza, solo le preghiere fatte con il vero cuore arrivano al cuore dell’Universo.

«I hope that the Earth, Sea and Sky up above

Will send me someone to lava».

È particolarmente importante, per me, iniziare con una canzone semplice, perché senza un cuore semplice non ci può essere ascolto. Un cuore sporco non sente niente.

Vi abbraccio. Buona giornata.

dj Costanza Di Tokyo

#Lava
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